Storia dimenticata di una strage al tempo in cui eravamo “buoni”
Il Foglio, 29 marzo 2002

Il venerdì santo di cinque anni fa, 28 di marzo, intorno alle sette della sera, nel Canale d’Otranto, al largo di Brindisi, la motovedetta albanese Kater I Rades, con un ingente carico di clandestini, fu speronata dalla corvetta della marina militare italiana Sibilla e colò a picco fino a depositarsi a circa 800 metri di profondità con un centinaio di morti a bordo. La maggior parte donne e bambini. Si salvarono soltanto 34 maschi adulti. L’affondamento della Kater I Rades è una tra le più tristi, biasimevoli pagine della storia del dopoguerra. E’ la nostra Wounded Knee. La motovedetta fu speronata nel corso di una manovra che avrebbe dovuto costringerla a tornare indietro, a Valona, da dove era partita. L’ingaggio era stato avviato dalla fregata Zeffiro, la stessa nave rientrata nel porto di Taranto la scorsa settimana dopo quattro mesi trascorsi nell’oceano indiano a rappresentare il nostro sentimento di occidentale responsabilità. Secondo alcune testimonianze quella sera di cinque anni fa, già al Zeffiro fu chiesto da Maridipart di Taranto di eseguire un’azione più decisa sulla motovedetta. Poco più tardi al Zeffiro subentrò la corvetta Sibilla, che portò a termine con maggiore precisione l’azione di ingaggio. In effetti la Kater I Rades fu ingaggiata alla perfezione – speronamento secondo gli albanesi, collisione fortuita, secondo i nostri - e spedita sul fondo. Pare che il comandante del Sibilla avesse comunicato via radio ai suoi superiori di avere dei problemi a causa del mare. Da terra gli fu detto di procedere ugualmente. Bisognava praticare le procedure di harrasment, molestie di manovra, per far tornare indietro la Kater i Rades. Forse il comandante del Sibilla, investito di difensivo fervore, o soltanto zelante, forzò le regole d’ingaggio. Altri credono diversamente, ubbidì agli ordini: secondo alcune testimonianze i vertici della Marina Militare volevano impedire a tutti i costi l’arrivo sulle nostre coste della carretta, per dare una risposta alle polemiche di quei giorni. Stampa e tv criticavano la Difesa per la disastrosa strategia scelta a cavallo tra la fine dell’inverno e l’inizio della primavera del 1997. Ma la Marina era solo un esecutore. Quando all’inizio del 1997, in Albania crollarono le priramidi finanziarie e scoppiarono i movimenti anti- Berisha, e il Canale fu solcato da migliaia di scie - gommoni affittati per 6-700-1000 marchi a posto – il governo italiano preferì non affrontare la situazione: né bloccare il drammatico flusso di profughi (in parte incentivato dal governo di Tirana, che utilizzava quei disperati come minaccia in attesa degli aiuti finanziari internazionali); né decidere di accogliere i fuggiaschi apertamente. Nel secondo caso, chi avrebbe risposto ai padani anti-immigrazione? Quanto alla prima ipotesi, di bloccare il porto di Valona non se la sentì nessuno: se nel corso di una scaramuccia con la malavita albanese fosse stato ferito un marinaio? Chi avrebbe resistito alle giaculatorie dei pacifisti malpancisti? Così invece di bloccare Valona, si lasciò eroicamente speronare la Kater I Rades. Del resto bisognerebbe ricordare che nel porto di Valona solo qualche mese prima l’incrociatore Vittorio Veneto, numero due della nostra flotta da guerra - dopo il Garibaldi - aveva lasciato posare la sua sederosa chiglia sul fondo sabbioso.

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L’affondamento KiR è un interessante simbolo di decadimento. Gli alti ufficiali che presiedettero alla decisione di applicare quelle rules of engagment contro la motovedetta, chi sono? Ciascuno di essi riesce a pensare di se “io sono classe dirigente”? Fino a che punto sono legati alla loro stessa tradizione? Che cosa hanno studiato? Che cosa ricordano dell’affondamento del Viribus Unitis nel porto di Pola, che cosa rammentano dell’azione contro Valiant e Queen Elisabeth nel porto di Alessandria, come giudicano i sacrifici di Capo Matapan o di Punta Stilo? Pensano che siano solo pagine un pochino ingiallite delle sinossi d’accademia, memoriucce italiche, fascistismi, idiozie, nostalgie di pantofolai? Buttare giù 100 persone per far finta di essere inflessibili non è solo una prova di vigliaccheria, ma di totale assenza di senso di se stessi – come se non sapessimo più chi siamo. Nella nostra tradizione di guerra per mare gli uomini che comandano il combattimento si preoccupano sempre di salvare vite umane, anche quelle dei nemici. A Pola nel ’18 Raffaele Paolucci e Raffaele Rossetti, ad Alessandria 25 anni dopo, Luigi Durand de La Penne cadono prigionieri dopo aver collocato gli esplosivi sotto le navi nemiche. Interrogati non parlano. Solo nell’imminenza dello scoppio delle cariche, per consentire l’evacuazione delle navi minate, comunicano ai comandanti che stanno per saltare in aria. Anche nella grande letteratura marinaresca, sulla vita di chi è inerme si gioca tutto. Basti Lord Jim. Il giovane Jim cerca invano di scappare dalla vigliaccheria che ha commesso lasciando senza governo una nave da trasporto – il piroscafo Patna! - con 800 pellegrini musulmani a bordo. Crede che la nave affonderà, salva la sua vita senza cercare di salvare quella degli altri. Consente al suo processo pubblico senza sottrarvisi. E’ disposto a guardare in faccia il suo inaspettato, repentino disonore. Qui no. Immaginatevi una nave da guerra lunga circa 90 metri, pesante 1000 tonnellate. Punta verso una bagnarola cinque volte più corta, 25 volte più leggera. La sovrasta con le sue murate. Goffamente le gira intorno. C’è un mare formato, forza 4. La nave cerca di manovrare, ma è troppo vicina all’altra. Avrebbe bisogno di almeno una cinquantina di metri per rispondere ai comandi; ce ne sono una decina. Forse il comandante del Sibilla ha ordinato di lanciare una cima per bloccare l’elica della motovedetta. La manovra non è riuscita. C’è un primo urto, leggero, il guscio della Kater I Rades va a sbattere contro la fiancata del Sibilla. Sul rinculo c’è un secondo urto più forte. La chiglia della motovedetta colpisce il bulbo di prua, immerso, della nave italiana. La motovedetta si corica su un fianco e in pochi minuti va a picco.

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A parte l’orrore di una simile condotta, la cosa fu talmente imbarazzante che quell’episodio segnò anche un caratteristico caso di impaccio politico. Nessun uomo di governo scese a Brindisi per rendersi conto di quanto fosse accaduto, per testimoniare rammarico o semplicemente per dire: “mi dispiace”. Brindisi fu consegnata al capo dell’opposizione, il quale andò a visitare i superstiti e si mise a piangere, per finta – disse qualcuno. Ma l’opinione pubblica fu davvero molto impressionata dalla fine della Kater I Rades. La motovedetta fu recuperata dalle acque profonde nell’autunno del 1997. Nel gennaio del 2000, mentre il processo cominciava a farsi timido largo tra le carte del tribunale di Brindisi, l’affare si colorò del classico giallino penisola. L’avvocato di parte civile delle vittime albanesi, un arbresh di nome Giuseppe Baffa, morì insieme a un suo collega, Francesco Perrotta, in un incidente sulla Taranto-Brindisi, all’altezza di Grottaglie. Negli ultimi tempi aveva confidato a persone vicine di essere preoccupato per la sua vita. E tre giorni prima aveva sentito un giornalista del Resto del Giorno-Resto del Carlino-Nazione, Giovanni Morandi, che si era occupato della Kater I Rades, e gli aveva detto di dovergli comunicare a voce alcune novità interessanti di cui non poteva accennargli per telefono. Chissà, era solo la vezzosa ritrosia di chi vuol credere di essere spiato al telefono per sentirsi al centro del mondo. Oppure era proprio la verità: voleva raccontare a Morandi un fatto nuovo. Morandi non fece in tempo a incontrarlo. Della morte degli avvocati Baffa e Perrotta non si è più parlato. Sulla morte dei cento albanesi della Kater I Rades si aspetta l’esito del processo. Ha superato la prima metà. Sono stati sentiti i testimoni dell’accusa, adesso tocca a quelli della difesa. A Natale, probabilmente… Ma il processo si occupa delle responsabilità penali di un comandante sciagurato. Il giudizio politico non spetta al tribunale. Molti dei morti albanesi affondati insieme alla decrepita motovedetta giacciono in fondo al Canale. Dopo cinque anni non ne è rimasto quasi più nulla.

di Marco Ferrante